“Sul nucleare il Piemonte c’è”. “Sono per l’utilizzo consapevole delle risorse naturali”. Queste due icastiche frasi, nette da ogni residuo di dubbio, sono state pronunciate dall’Assessore regionale all’Ambiente Ravello alla recente presentazione dello stato dell’ambiente sulla base del rapporto dell’ARPA.
Purtroppo non credo che la consapevolezza sia mancata o manchi tra le fila di chi ha promosso e resiste nel promuovere le energie a base fossile. E’, semmai, una consapevolezza dimentica del futuro, “sviluppista” nel suo animo profondo e nemica di un’idea critica capace di porre il bene comune dell’energia su un terreno di riconversione razionale e democratica. Ravello, dunque, riafferma, forse involontariamente, una cultura da “ballo sul Titanic”, confermata dall’innamoramento senza condizioni per l’atomo. Del resto, ancor prima che la Consulta della Corte Costituzionale decidesse di dar torto alle Regioni ricorrenti (vedremo le motivazioni della sentenza), fu direttamente il presidente Cota ad annunciare il ritiro del ricorso piemontese mettendo subito in chiaro, per quella via due cose. Il centro destra non si sente messo in un angolo da una legge nazionale che usurpa i titoli di intervento da parte delle regioni in materia energetica. Il centro destra, dopo le viscide contorsioni di suoi esponenti in campagna elettorale, è supino rispetto al rilancio nucleare voluto dalla coppia Berlusconi – Scajola e supportato da lobbies economico energetiche sia in Italia che in Francia (che non vede l’ora di vendere a noi tecnologie invendibili altrove!).
In campo fortunatamente rimangono ancora i ricorsi alla Consulta di alcune regioni su un decreto legislativo del febbraio scorso, che parla di semplice attivazione della Conferenza unificata Stato-Regioni, ma evita di rendere la singola regione titolare della co-decisione con lo Stato. Per restare in Piemonte vanno invece segnalati, con diversa decorrenza dei singoli iter giuridici, i ricorsi contro la trasformazione degli attuali siti nucleari (Saluggia, Trino, Bosco Marengo) in depositi di se stessi. Tali ricorsi vedono la confluenza attiva di associazioni, singoli cittadini ed ex consiglieri regionali, che non hanno inteso abbassare la guardia già negli scorsi anni e che ora vedono pericolosamente, grazie alla legge nazionale, ristretti gli spazi di azione. A proposito di norme nazionali, chi si ricorda ancora che il deposito centralizzato doveva già essere realizzato per fine 2008? Solo Ravello pare essere ottimista e non vede l’ora di mettere il Piemonte in pista con un suo nuovo impianto. Peccato che quel deposito sia per certi versi una vera e propria chimera o, per altri, rischi di essere nei fatti già presente proprio sul nostro territorio, mentre si fa finta di non capire che Saluggia, per fare un esempio, già oggi contiene gran parte delle scorie presenti in Italia.
In questa situazione, davvero difficile, a noi spetta il compito, dentro la costruzione di coalizioni sociali e politiche le più ampie, di rilanciare puntualmente una discussione democratica e partecipata di natura critica e documentata.
Occorre ricordare che le centrali nucleari rappresentano la soluzione più pericolosa ai problemi creati dai combustibili fossili, sia in termini di sostanze tossiche che vengono create per ogni chilowattora di energia elettrica prodotta, sia ancor più in termini di sostanze tossiche che vengono create per ogni kg di CO2 evitata. Esse sono scarsamente efficaci nell’azione di rallentamento dei cambiamenti climatici, sono poco tempestive a causa dei lunghi tempi di realizzazione e delle notevoli emissioni prodotte nella costruzione, nello smantellamento ed anche nell’approvvigionamento dell’uranio, specie se si dovrà utilizzare minerale povero. Durante il funzionamento producono al loro interno rifiuti altamente radioattivi che in caso di incidenti possono essere proiettati all’esterno e che, in ogni caso, rimangono pericolosi per migliaia di anni.
In ogni caso emettono, durante il loro normale funzionamento, rifiuti radioattivi liquidi e gassosi che sottopongono i cittadini ad esposizioni ufficialmente definite "basse", ma non per questo meno pericolose in termini collettivi. Possono, insieme ai depositi nucleari e agli impianti di riprocessamento, essere un tragico bersaglio per atti terroristici devastanti, mentre comportano la produzione di plutonio e uranio impoverito, che possono avere impiego nel settore militare.
Dal punto di vista economico non hanno un costo competitivo, specie se il minerale da cui si ricaverà l’uranio sarà sempre più povero, se si dovranno costruire gli impianti di riprocessamento e di autofertilizzazione e se si considera anche il costo dello smantellamento e della custodia millenaria delle scorie radioattive. Subordinano la sicurezza di approvvigionamento elettrico alle disponibilità di uranio e, anche in caso di riprocessamento e/o di autofertilizzazione, a tecnologie complesse di difficile controllo democratico e di difficile mantenimento in situazioni di difficoltà sociali o belliche, Infatti costringono ad una militarizzazione del territorio, per prevenire i terribili effetti di eventuali atti terroristici. Infine occorre sottolineare con forza il fatto che richiedono investimenti ingentissimi, che vengono così sottratti alle fonti energetiche rinnovabili e pulite, quali l’efficienza e il solare, mentre sottraggono ai cittadini la possibilità di essere essi stessi produttori di energia, relegandoli ad essere solo consumatori passivi di energia prodotta centralmente.
Basta restare a queste ultime considerazioni per capire come una vera riconversione energetica ha bisogno assoluto, oltre che di razionalità critica, anche di un plus di democrazia e condivisione. Sono concetti che sfuggono ai vari Ravello e Cota, ma che non possono sfuggire a noi nel momento in cui, tra l’altro, stiamo dando il nostro contributo per far vincere il referendum sull’acqua bene comune. La gestione comunitaria e “decentrata” del bene energetico è sicuramente invisa a chi, come i padrini del nucleare, pensa a questo come fonte di potere e di valore semplicemente economico. Una battaglia su questo terreno, dunque, si deve spingere a ridisegnare l’idea di energia come utile in primo luogo alla vita, sapendo che, così almeno la penso io, anche le energie rinnovabili possono essere tragicamente risucchiate nella tanto pubblicizzata green economy. In una strategia, cioè, basata spesso su una idea di crescita lineare in cui i veri impatti sociali e ambientali sono nascosti (pensiamo alle centrali per produrre bioetanolo da cereali), mentre il controllo sociale rimane saldamente in mano a pochissimi.
Alberto Deambrogio, PRC-SE-FDS