Il federalismo fiscale prosegue il suo iter attraverso l’emanazione da parte del Governo di una serie di decreti attuativi che vengono presentati alla spicciolata, nel disinteresse dei più. Accade così che sia molto difficile la ricostruzione del senso complessivo di tali provvedimenti. Alla fine, anche in virtù delle modalità con cui le notizie filtrano attraverso gli organi di informazione, l’effetto più probabile è quello propagandistico. Una sorta di apprezzamento generale per l’incessante produzione legislativa, il cui merito viene ascritto a Calderoli e alla Lega Nord. Occorre allora fare un po’ di chiarezza su quello che sta succedendo, ma per farlo alcune premesse sono indispensabili. La legge sul federalismo fiscale, a suo tempo approvata con il voto favorevole delle forze di governo, dell’Idv e con l’astensione del Pd, muove da un assunto, quello cioè della “territorialità” nel reperimento delle risorse e nella gestione della spesa e ciò in ossequio ai contenuti dell’art.119 della Costituzione modificato (irresponsabilmente) nel 2001 per iniziativa del centro sinistra. In virtù di tale impostazione, il meccanismo previsto è quanto mai complesso e ferraginoso, prevedendo tributi autonomi e compartecipazioni ai tributi erariali, per i vari livelli istituzionali, e meccanismi perequativi per supplire a eventuali deficit che si manifestassero su singoli territori. Il punto, tuttavia, è che le perequazioni non si applicano a tutte le voci di spesa delle istituzioni locali, per cui è evidente il vantaggio di alcune realtà (quelle del centro nord) dotate di maggiore capacità impositiva. Inoltre, anche per i diritti fondamentali (che dovrebbero valere per tutti) il concetto di “essenzialità” delle prestazioni e la conseguente determinazione dei costi standard creano le premesse per la costruzione di uno “stato sociale minimo”, in cui le differenze già oggi grandissime fra le varie parti del paese tendono ad accentuarsi anziché a ridursi. Che questi siano gli effetti possibili è prevedibile e non solo in virtù dei contenuti della legge, ma dell’ispirazione generale da cui la legge muove. Vi è tuttavia un altro elemento che non va sottovalutato ed è la partita finanziaria. Nella legge è precisato che esiste un vincolo di spesa non modificabile; inoltre il provvedimento si inserisce in un contesto in cui la stretta finanziaria ha già determinato forti restrizioni nella spesa locale, e in cui le nuove disposizioni della Ue, prevedendo la possibilità di riduzioni automatiche dei trasferimenti dei fondi comunitari per gli stati che non sottostanno ad alcuni indirizzi, rendono incerti molti finanziamenti destinati al sud. La partita del federalismo fiscale, quindi, non solo crea le premesse per la disarticolazione territoriale e per la lesione del principio di eguaglianza contenuto nell’articolo 3 della Costituzione, ma viene a saldarsi con orientamenti di politica economica che accentuano tali tendenze, aprendo inoltre la strada o al taglio dei servizi o alla loro privatizzazione. A ben guardare i primi decreti attuativi della legge evidenziano queste logiche. A parte il fatto che si tratta di provvedimenti del tutto disorganici, una sorta di spezzatino, in cui le singole disposizioni procedono senza una logica, conviene soffermarsi brevemente sui loro contenuti fondamentali. Quello sul “federalismo demaniale” trasferisce in blocco gran parte della proprietà del demanio a regioni ed enti locali, determinando la possibilità di vaste alienazioni di beni pubblici o di una loro non meglio precisata valorizzazione. Quello sul “federalismo municipale”, oltre a stabilire le quote di tributi che spettano ai comuni, introduce la famosa cedolare secca per la tassazione degli affitti che in nome della lotta al sommerso, fa un’enorme regalo alla grande rendita fondiaria, oltre che azzerare il principio della progressività delle imposte. Il provvedimento su “Roma capitale”, oltre a dare disposizioni sulla formazione degli organi di governo della città, riduce il numero delle municipalità. Infine, quello sulla determinazione dei “costi standard” delle prestazioni fondamentali di province e comuni, stabilisce alcuni criteri, senza aver prima determinato quali debbano essere i livelli essenziali di tali prestazioni, in sostanza posponendo al calcolo della spesa quello dei fabbisogni sociali. Il resto è in gestazione in questi giorni, dalla definizione dei tributi e le compartecipazioni proprie di regioni e province, ai costi standard delle regioni, ai vincoli e alle sanzioni previste per gli amministratori che non rispettano i nuovi criteri. A ben vedere, ciò che domina è il controllo della spesa, via alienazione di beni, riduzione degli organi di decentramento, meccanismi di recuperi delle risorse attraverso le sanatorie fiscali, subordinazione della stima dei fabbisogni alle esigenze finanziarie, vincoli agli amministratori. Il tutto all’interno di un’impostazione che reggendosi sull’autonomia impositiva enfatizza le diversità territoriali. Se qualcuno interpreta tutto ciò come una sana opera di razionalizzazione prende lucciole per lanterne; siamo alla solita operazione di contenimento/riduzione della spesa per esigenze di bilancio, perseguita attraverso la riduzione dei diritti e la differenziazione degli stessi a livello territoriale.
mercoledì 22 settembre 2010
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